Ma Cupido
ha i tacchi a spillo?
L'incipit
 |
Esco di casa presto tirata a lucido,
con lo zainetto sulle spalle come se
fosse il mio primo giorno di scuola.
Invece è il primo giorno del lavoro
che ho sempre sognato.
|
Tuttofare-aspirante-editor
in una piccola ma già affermata casa
editrice che si occupa di narrativa
femminile. In prova, naturalmente, ma è un
inizio, no?
Dovrei cominciare alle nove, ma alle otto
sono già su una banchina sovraffollata ad
aspettare il metrò. Voglio assaporare questo
giorno, magari fermandomi in quel baretto
per un caffè e una brioche. Sempre che io
riesca a salire su questo benedetto vagone.
Dio quanto è pieno!
Strattono e vengo strattonata, ma alla fine
conquisto un posticino tra altre duecento
persone mentre, con la coda dell’occhio, mi
accorgo che alla mia destra accade qualcosa
di curioso: la folla si apre, come il Mar
Rosso davanti a Mosè, e lascia passare una
matrona biondo stoppa più alta di me di un
bel tocco e molto ben piantata. Mi ricorda
un po’ certe atlete dell’est, di quelle che
si vedevano alle Olimpiadi prima che
cadessero il Muro e i livelli consentiti di
testosterone nel sangue. Indossa una giacca
rossa attillata sopra un golfino nero dalla
cui scollatura occhieggiano due tette di
dimensioni imbarazzanti. La tipa, che questa
mattina non ha lesinato su fard e rossetto,
conquista alla fine i suoi venti centimetri
quadrati e mi si piazza di fianco. Oddio,
sono quasi intimorita.
Abbasso lo sguardo e l’occhio mi cade sulle
sue scarpe che non solo hanno dimensioni
cospicue – un quaranta pieno, direi – ma
sono più rosse del fuoco, con due tacchi a
spillo che potrebbero uccidere.
Decido di ribattezzare la matrona Irina
Stilettova.
Le porte si richiudono e il treno con
qualche scossone riparte. Incuriosita, ogni
tanto lancio un’occhiata furtiva a Irina che
nel frattempo ha estratto con rapida mossa
un cellulare. La osservo impegnarsi in una
conversazione in una lingua sconosciuta
(bulgaro?), il tono della voce sempre più
alto, il seno che sobbalza a ogni niet,
le labbra che si increspano in una smorfia
sprezzante. Non paga di ciò, fa comparire un
secondo cellulare e comincia a digitare un
messaggio a velocità impressionante. Dio
benedetto! Sono ipnotizzata e quasi ammirata
da tanta abilità. Parla, digita e manda
fulmini con la destrezza di un
prestigiatore. Ecco, ora è proprio
arrabbiata. Dice probabilmente qualcosa tipo
io ti spiezzo in due e nel frattempo
pigia il tasto verde per inviare il
messaggino. Ino. Almeno 200 battute
in dieci secondi. Roba da Guinness dei
Primati.
Siamo ormai prossimi alla stazione
successiva e il treno prima rallenta, poi di
colpo inchioda, con un gran stridore di
metallo su metallo; la gente urla, vittima
delle ineluttabili leggi dell’inerzia, e
tutti quanti, anche Irina Stilettova e i
suoi due cellulari, perdono l’equilibrio.
Quando vedo il corpaccione della donna
rimbalzare nella mia direzione, vorrei
urlare e darmela a gambe, ma invece rimango
lì, impotente, prigioniera del muro umano
che mi circonda, gli occhi rivolti al cielo,
in attesa dell’impatto inevitabile.
Irina urla – banzai? – e con un
guizzo da trapezista riesce a evitare il
99,9% della mia massa corporea, accanendosi
però con uno dei suoi malefici stiletti sul
restante 1%, ovvero l’alluce del mio piede
sinistro. Il ditone, insomma.
Mi accartoccio su me stessa nel poco spazio
che mi spetta e lancio un urlo che
agghiaccia anche me.
Mentre il treno arriva in stazione, qualche
anima buona mi tende una mano. Sono a terra,
colpita e affondata, percorsa da onde di
dolore che dal ditone arrivano al cervello,
le guance bagnate da lacrime di puro dolore.
Sento mani che mi afferrano, un braccio che
mi sostiene con forza e mi guida fuori dal
vagone. Mi giro verso il mio salvatore e mi
accorgo con orrore che si tratta di lei.
Irina.
Oh. Mio. Dio!
Vorrei
scappare, ma non ce la faccio.
Mi accascio su una panchina. Lei mi toglie
con impensabile delicatezza la scarpa, poi
controlla ciò che un tempo era stato il mio
alluce. È grosso come un uovo sodo.
«Ahhhh» commenta scuotendo la testa, «tu
dito rotto. Io infermiera, io so. Ti porto
da mio dottore.»
Da suo dottore.
Tremo alla sola idea.
Chi sarà, il Dottor Frankenstein o il Dottor
Mabuse?
Non faccio in tempo a dire no che si
è già attaccata a uno dei due cellulari.
«Io chiamato ambulanza» dice.
Amen!
|