E infine La
Bestia incontrò Bella
L'incipit
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15 ottobre 2015
Denver |
I tacchi di Bella risuonavano impertinenti
sul corridoio di finto marmo. Dodici
centimetri. Semplicemente un altro strumento per
non sentirsi persa, e non solo fisicamente,
in un mondo di gargantua. Temibili, paurosi
gargantua.
Per Bella riuscire a fissare il prossimo
negli occhi – quasinegli occhi in
caso di superamento della barriera dei 180
centimetri – era una necessità e spesso ci
riusciva solo grazie alle Jimmy Choo o alle
Manolo, un fringe benefit che la sua
posizione di responsabile della moda del Denver
Tribune le assicurava. Gli stilisti,
compresi Choo e Manolo, la omaggiavano delle
loro ultime creazioni? Lei certo non le
rifiutava.
Come ogni mattina alle nove si infilò
nell’ascensore più per darsi una
controllatina allo specchio che per
risparmiarsi la rampa di scale che la
separava dall’ultimo piano, quello della
direzione.
Sì, era tutto a posto, camicetta di seta
bianca e gonna nera, più le Jimmy Choo di
vernice rossa da togliere il fiato. Capelli
castani appena ondulati sciolti sulle
spalle, perle alle orecchie e al collo, un
po’ di mascara sulle ciglia a evidenziare i
suoi occhi verdi, e labbra più rosse del
diavolo, in perfetta nuance con le
Jimmy Choo. Il solito travestimento,
insomma, che l’avrebbe messa al sicuro da
ogni tentativo dei suoi colleghi di
irrompere nella sua vita.
Branco di animali.
E che la chiamassero pure Miss Algida o Ghiacciolo
alla moda o, ancora, 32,
sottintendendo Fahrenheit (ovvero il punto
di congelamento dell’acqua), o Italian
Job – lavoretto italiano – sottintendendo
qualcosa di più volgare, la cosa non la
toccava per nulla. Forse solo un pochino, ma
se ne infischiava.
L’ascensore si fermò e le porte si aprirono
portando sino a lei il vocio dei suoi
colleghi, probabilmente intenti a bere caffè
e a rimpinzarsi di ciambelle. Dio! Sembrava
che non vivessero che per i carboidrati,
quando lei…
Una sola ciambella – non che non ne avesse
una voglia sconfinata – e forse
sarebbe ricaduta nel tunnel di Hänsel e
Gretel, come lo chiamava lei. No, meglio
neanche sniffarli i carboidrati se voleva
che il suo fisico, che un tempo lei trattava
così male, rimanesse abbastanza elegante e
sottile da oscillare senza difficoltà su
delle vertiginose Jimmy Choo o da
permetterle di fasciarlo nell’ultima
creazione di Donna Karan.
Ecco la sala riunioni. Prese un gran respiro
ed entrò.
Caporedattore e capiservizio, tutti con un
iPad davanti, tutti collegati in Rete.
«Buongiorno!» salutò con un bel sorriso,
appena spruzzato di sarcasmo.
«Ciao 32!»
«Chissà perché all’improvviso si gela…»
commentò il responsabile dello sport,
suscitando qualche risata.
«Ghiaccioli in questa stagione?» chiese un
altro.
«I ghiaccioli italiani sono i migliori, non
lo sapevi?» rispose un altro ancora,
riferendosi alla nazionalità di Bella.
La quale, come tutte le mattine, non diede
alcun segno di offendersi o anche solo di
prendersela un pochino. Sorrise fingendosi
divertita dallo sfottò e con un «Molto
spiritosi, come sempre» andò a servirsi una
tazza di caffè, sforzandosi di non guardare
le ciambelle.
Che si fottessero anche quelle.
Prese posto vicino a Elizabeth e Maddie, gli
altri due esseri umani nella stanza privi di
cromosoma Y.
«Sei uscita con quel Tom, ieri sera?» le
chiese Maddie mentre il direttore faceva il
suo ingresso nella sala come se fosse
inseguito da un Attila piuttosto inviperito
invece che dalla sua assistente.
«Mark, si chiama, e sì, ci sono uscita.»
«Ehhhhh?» si inserì Elizabeth curiosa.
«Ehhhh… niente.»
«Neppure un bacio? Così, tanto per provare
se ti scongelava un po’.»
Bella alzò gli occhi al cielo ripensando a
come l’avesse liquidato prima che lui
potesse solo pensare di baciarla.
«Se le signore fossero così gentili da
concedermi la loro attenzione…»
La voce in falsetto del direttore.
Lewis-faccia da schiaffi-Cards, a
essere gentili. Ribattezzato House of
Cards non per niente, visto che avrebbe
ucciso la madre per salire un gradino, anche
uno piccolo piccolo, nella scala del
successo.
Non lo sopportava più.
Del tutto ricambiata, visto che lui non
sopportava lei dopo che, udite udite,
aveva osato respingerlo. Da quella sera nel
suo ufficio, un paio di mesi prima, quando
si era liberata di lui con un ceffone e lui
l’aveva definita stronza di merda,
una tautologia tanto inutile quanto poco
raffinata, anche il loro rapporto
professionale si era comprensibilmente
arenato. Da allora Cards aveva cominciato a
tormentarla affidandole compiti da poco, che
non solo con la moda e lo stile non avevano
niente a che vedere, ma che avevano spesso
lo scopo di umiliarla. Notiziole tappabuchi
che neppure uno stagista del blog del
giornale avrebbe accettato di scrivere.
Mobbing?
Forse. In ogni caso niente che non potesse
affrontare dopo essersi passata sulle mani
una bella dose di disinfettante.
Così, senza mai smettere il tacco dodici,
aveva accettato di stare al gioco di
quell’omuncolo, anche perché, se non
l’avesse fatto, Cards sarebbe stato più che
felice di liberarsi di lei e del ricordo di
quelle cinque dita stampate sulla faccia.
«Cominciamo…»
Il solito confronto con i giornali della
concorrenza, le solite invettive per le
notizie bucate e la soddisfazione per gli
scoop, il tutto prima che il caporedattore
prendesse la parola, seguito, uno dopo
l’altro, dai capiservizio. Insomma, la
solita trafila per mettere a punto
l’edizione dell’indomani.
Ogni volta era come un puzzle da comporre,
lavoro affascinante ma irto di difficoltà,
dove la diplomazia del caporedattore era
essenziale per evitare duelli all’ultimo
sangue fra i suoi sottoposti. Esteri contro
interni, politica contro cultura, spettacolo
contro cronaca, salute contro costume, sport
contro tutti.
Non era un tipo di tenzone che coinvolgeva
Bella, e non solo perché amava il quieto
vivere.
In fondo era caposervizio di se stessa e di
un paio di freelance e sapeva che i suoi
pezzi avrebbero trovato spazio se e forse ci
fosse stata un’esigenza pubblicitaria o
fosse rimasta libera una mezza pagina, a
volte tra gli articoli di costume, a volte
tra le pagine della cultura o della cronaca.
Sapeva anche che, come sempre, quella
mattina sarebbe stata l’ultima a esporre la
sua scaletta, che non prevedeva che
un’intervista al responsabile di
un’importante boutique della città. Una vera
barba, ma il negozio spendeva ogni anno un
sacco di soldi in pubblicità e bisognava
tenerselo buono.
Ma non sarebbe andata sempre così. Per
quanto adorasse il suo mestiere, era stanca
della moda, voleva scrivere di qualcosa di
più stimolante delle ultime sfilate.
Fingendo di seguire la programmazione sul
suo iPad, si stampò un’espressione
interessata sul volto e attese pazientemente
il suo turno che, puntuale, arrivò mentre
gli altri capiservizio già cominciavano a
raccogliere le proprie cose per correre in
redazione e assegnare i pezzi ai redattori.
Come al solito parlò senza essere ascoltata
da nessuno, tanto che, se avesse affermato
che gli uomini la prossima stagione
avrebbero indossato crinolina e corsetto,
nessuno se ne sarebbe accorto. Il suo pezzo
venne come sempre approvato visto che i suoi
articoli procuravano al giornale un discreto
apporto pubblicitario. E a quel punto, come
da manuale, altri pezzi, benché non di sua
competenza, le piovvero addosso come tante
mannaie. D’altronde, la sua temperatura
esterna poteva essere sì di 32 gradi
Fahrenheit, ma quando si trattava di
riempire i vuoti nelle scalette dei suoi
colleghi, di colpo diventava la cocca di
tutti.
Bella su e Bella giù.
Da grande lavoratrice qual era sempre stata
non aveva mai rifiutato un pezzo, a meno che
non trascendesse le sue competenze. Una
volta aveva persino intervistato un
attaccante degli Ice Breakers. «Tu che di
ghiaccio te ne intendi» le aveva detto il
direttore sollevando uno sghignazzo
generale, «perché non intervisti Mark Davis?
Niente che riguardi l’hockey, domande sul
suo tempo libero, cosa gli piace e non gli
piace fare, roba di quel genere, che i fan
adorano.»
E lei lo aveva fatto. E da come lo stronzo
ci aveva provato per tutta la telefonata,
non ci era voluto molto a capire quali
fossero i suoi interessi. D’altronde, da
quando si era trasferita a Denver, dove
l’hockey era una religione, non era un
mistero neppure per lei che i giocatori di
hockey non avevano in testa che una cosa, in
campo e fuori: andare a segno.
Finalmente la riunione giunse al termine ma,
tra il vocio dei presenti che cresceva e gli
iPad che venivano richiusi nelle custodie,
il direttore chiese ancora un momento di
attenzione.
«Ci sarebbe un ultimo punto da discutere.»
Bella, pur senza guardarlo, sentì gli occhi
di Cards perforarla e rabbrividì. Guai in
vista?
«Tutti siete a conoscenza dell’esperimento
del Daily, vero? Vi ho inviato una
email con tutte le informazioni necessarie»
continuò il direttore.
«Esperimento fallito. Un redattore
incaricato di sopravvivere per un mese con
cento dollari in tasca, senza cellulare e
carta di credito, avrebbe dovuto dimostrare
che fortuna audaci iuvat» disse il
responsabile dello sport con fare da
saputello.
«Audaces iuvat, semmai» lo corresse
Bella.
«Sì, proprio così» la rimbeccò quello.
«Insomma, la solita storia del sogno
americano: chi vuole può farcela.»
Bella scosse la testa e si fece sfuggire un
«Ah!» sarcastico prima di aggiungere: «Non
mi sembra che il redattore del Daily ce
l’abbia fatta, o sbaglio? È corso a casa con
la coda fra le gambe e, da quel che ho
capito, lo stomaco molto vuoto.»
«Un povero inetto, quel Brown» rincarò la
dose il capo della cronaca. «D’altronde,
come aspettarsi qualcosa di diverso da un
tipo come quello? Ha fatto fare al Daily una
figura da dilettanti.»
Bella guardò Elizabeth e Maddie, scuotendo
il capo.
«Se non ho capito male, il sogno americano
non c’entrava affatto con quell’esperimento»
disse Maddie. «Semmai si trattava della
fuga dal sogno americano: come
darsela a gambe e sparire con cento dollari
in tasca.»
«Credo che l’esperimento» si inserì Bella,
«volesse testare più che altro i sistemi
informatici che ormai ci controllano
ventiquattr’ore su ventiquattro: telecamere,
gps, cellulari, telefonini, carte di
credito.»
Tutti la stavano fissando. Chissà perché non
se n’era stata zitta! Lei non era una
semplice esperta di moda?
«In effetti» aggiunse Cards, «hai colto il
punto, Beauty.» Beauty! Bastardo di uno
stalker. «È possibile far perdere le
proprie tracce in un mondo in cui ogni
nostro passo lascia una scia digitale?»
«Il Grande Fratello ci guarda» commentò
Bella senza rispondere alla domanda retorica
del direttore, che, curiosamente, sembrava
rivolta proprio a lei. Si guardò intorno
mentre Cards riprendeva il suo bel
discorsetto.
«Il mondo si interroga se sia giusto o
sbagliato portarci addosso un ipotetico
codice a barre, se questa continua
schedatura ci difenda davvero dai cattivi o
se ci riduca a semplici numeri in mano al
potere.»
«Bel discorso, direttore» disse il
caporedattore, che incominciava a scalpitare
perché aveva un giornale da preparare, lui.
«Ma tutto questo dove ci porta?»
Cards fissò i presenti col suo sorriso
acuminato. «Il Daily non ce l’ha
fatta, ma se noi raccogliessimo la sfida e
dimostrassimo che è possibile sparire e
ingannare il Grande Fratello armati solo di
intelligenza e di pochi dollari? Sarebbe un
grande scoop per il giornale!»
La sala riunioni prima ammutolì, poi le voci
si rialzarono tutte insieme, qualcuna
approvando l’idea del boss, qualcuna
affossandola.
«L’unico che potrebbe riuscire a superare i
controlli informatici è un esperto del
settore, un hacker!» disse il caposervizio
della cronaca allargando le braccia.
«No, io non lo credo» rispose Cards, e Bella
sentì di nuovo i suoi occhi che la
trapassavano. «Qualche volontario fra lor
signori e signore?»
Altri mormorii, tanti occhi che fissavano il
soffitto o fuori dalla finestra.
«Quel che non capisco» disse Bella senza
abbassare lo sguardo, «ammesso che
accettiamo la sfida del Daily, quale
ente, istituto o agenzia federale avrebbe il
compito di dare la caccia alla nostra cavia?
Non credo che per assicurarci uno scoop FBI,
NSA, Homeland Security e tutte le sigle
governative di cui questo Paese abbonda si
presterebbero al nostro gioco!»
«Vero» rispose il direttore con un sorriso
compiaciuto. «Te l’ho già detto che non
dovresti occuparti di moda ma di qualcosa di
più serio, Beauty.»
Dio, odiava quando quell’uomo la chiamava
Beauty, come se fosse la sorellina di
Barbie!
«La moda in realtà è serissima, direttore.»
Lui la guardò scrollando le spalle. «In ogni
caso, hai messo il dito nella piaga. Non
possiamo tirare in ballo le agenzie federali
per scovare il nostro fuggitivo, ma…»
Altro silenzio grondante retorica che irritò
alquanto Bella.
«Ho le mie conoscenze» sentenziò House of
Cards gonfiando il petto come un pavone.
Le sue conoscenze! Bella alzò gli occhi al
cielo perché, dai, non ci voleva un genio
per capire chi fossero le sue conoscenze.
«Si riferisce alla redazione
investigativa, direttore?»
«Sì, decisamente non dovresti occuparti di
moda. Seguimi nel mio ufficio.»
***
16 ottobre 2015
Hope, Wyoming
Un altro giorno stava per incominciare.
Un altro giorno che si sarebbe spento in
un’altra notte.
La sua vita era un susseguirsi inutile di
secondi, minuti e ore senza luce. Non c’era
più luce in lui, né fuori di lui.
Forse non era più neppure un essere umano.
Forse era diventato una bestia. Sì, doveva
essere così, almeno a giudicare dai peli che
gli coprivano il volto e dai ringhi e
grugniti con i quali ormai si esprimeva
nella vana speranza di tener lontano il
mondo.
Ray predatore Raider fece per
alzarsi dal divano che era diventato la sua
zattera di salvataggio, ma ricadde
pesantemente sui cuscini lasciando andare un
sospiro disperato.
Il male al ginocchio, da quando aveva
interrotto gli antidolorifici, era
insopportabile, ma almeno gli permetteva di
rimanere lucido e di non dimenticare.
Bussavano alla porta, ecco perché si era
svegliato dal suo torpore.
Anne, probabilmente, e la sua mania di
portargli da mangiare quando lui avrebbe
voluto solo bere.
Si sdraiò di nuovo sul divano e si coprì la
testa con un cuscino. Avrebbe finto di
dormire, sì, e Anne se ne sarebbe andata.
Sentì la chiave girare nella toppa.
Anne non era il tipo da andarsene, anche
perché era in possesso di un doppione per
entrare in casa sua. Per quale ragione
gliel’aveva dato? Forse perché era come una
sorella maggiore ed era stata lei a
prendersi cura di lui da quando era tornato
a casa?
«Ray!»
La voce di Anne risuonò nell’ingresso mentre
il ticchettio delle unghie di Bear sul
pavimento lo avvisò che nel giro di pochi
secondi la grossa lingua di quell’animale
inutile gli avrebbe dato il buongiorno.
D’altronde, anche se lo aveva mandato in
esilio da Anne, era il suo cane, no?
Meglio fingere di dormire.
«Razza di sciagurato, sai che ore sono?»
Non gli importava un cazzo di che ore
fossero. Si girò verso la spalliera del
divano, grugnì e si cacciò un secondo
cuscino sulla testa.
Ma lei, quella donna impossibile, non
demorse, anzi. Era più testarda di un mulo e
soprattutto era senza cuore. Com’è che non
capiva che, ora che la sua vita era
rovinata, voleva solo starsene tutto il
giorno su quel divano a commiserarsi senza
nessuno tra i piedi?
Neanche Bear doveva averlo capito, visto che
fra pochi secondi gli sarebbe saltato
addosso. Era probabile che quel gran
bastardo, e in questo caso non era un
insulto ma una perfetta descrizione
dell’animale, avesse già un metro di lingua
fuori pronta per lui.
«Ti ho portato dei sandwich, i pancake con
la composta di mirtilli e ora ti preparo un
buon caffè. Sperando di non prendermi il
tifo nella tua cucina. Diavolo, due giorni
che non vengo e guarda come hai ridotto
questo posto. Ti mando qualcuno a pulire,
più tardi.»
Ray rispose con un altro grugnito, ma più
minaccioso.
«Allora, se non vuoi nessuno in giro, dovrò
farlo io!» disse la donna con un sospiro. «E
sai che la mia schiena ne soffrirà!»
Credeva forse che la carta della vittima
funzionasse ancora? Anne era più robusta di
un toro, altro che mal di schiena! E poi, a
lui, non importava di vivere in un porcile.
Non gli importava di vivere tout court.
Un altro grugnito.
«Mr Simpatia, raggiungimi in cucina che ho
delle novità su David.»
David
Anne aveva davvero delle novità sul piccolo
David o era solo un modo per prenderlo
all’amo?
Intanto, a colpi di muso, Bear aveva
spostato uno dei due cuscini che gli
coprivano la faccia ed era passato
all’analisi fisico-chimica dei diversi tipi
di odore che si sprigionavano dal suo corpo.
Non che ci fosse da stupirsi, visto come
puzzava.
«Vattene, Bear!»
Ma il cane non si mosse, anzi con una delle
sue zampone cercò di richiamare la sua
attenzione, o forse di abbracciarlo o,
ancora, e ciò sarebbe stato di gran lunga
meglio, di scavare una buca dove
seppellirlo, lui e la sua puzza.
Con l’ennesimo grugnito si girò verso Bear e
due occhi speranzosi lo trafissero.
Nonostante la sua esistenza gli apparisse
come un inferno in terra, Ray non poté fare
a meno di sorridere e di accarezzare la
grossa testa del cane.
«Sai che sei un rompiscatole peggio di
Anne?» disse prima di alzarsi in piedi con
non poche difficoltà.
David.
Prese le stampelle appoggiate al tavolino e
se le sistemò sotto le ascelle preparandosi
mentalmente a sopportare il dolore che lo
avrebbe investito a ogni passo.
Seguito da Bear, caracollò sino in cucina,
da dove proveniva l’aroma di un caffè che un
tempo gli sarebbe parso squisito. Ora non
sprecava neppure il tempo a prepararselo, il
caffè. Versava direttamente dal rubinetto un
po’ di acqua calda in una tazza e, se ne
aveva la forza, ci aggiungeva un cucchiaio
di liofilizzato. Altrimenti si accontentava
dell’acqua calda.
«Siediti» gli ordinò Anne mentre liberava il
tavolo da piatti e bicchieri sporchi e da un
nutrito campionario di scatole di take-away
ancora mezze piene. «Dio, che schifo, Ray!
Star male non vuol dire ridursi così!» gli
urlò la donna mettendogli davanti una tazza
di caffè e i pancake ai mirtilli che gli
aveva portato dalla tavola calda.
Lui non rispose, ma bevve un sorso di caffè
sotto lo sguardo attento di Bear che gli si
era seduto di fianco sperando di certo in
qualche boccone. Fece tre tentativi prima
che la voce gli uscisse dalla gola, ma alla
fine ci riuscì. Le parole fluirono lente e
roche, come se anche loro fossero a pezzi.
«Dimmi di David, Anne.»
La donna smise di lavare i piatti e si girò
verso di lui. Era un sorriso quello che
aveva sulle labbra? Doveva forse sperare?
«Te lo dirò se prima mi prometti che
lascerai che qualcuno dia una pulita a
questo posto. Carmen, magari.»
«Dimmi di David, Anne» ripeté fissando il
liquido scuro nella tazza.
«Prometti?»
Un altro grugnito.
«Lo prenderò per un sì. Il bambino è
uscito dal coma.»
Per poco la tazza non gli cadde di mano.
Riuscì a evitare che si schiantasse sul
tavolo, ma non a impedire che il liquido
bollente gli finisse sulla mano,
scottandolo.
Ma non sentì dolore.
La gioia per la notizia era così devastante
che in quel momento avrebbe potuto tenere in
mano un tizzone acceso e non se ne sarebbe
accorto.
«E… come sta?»
Anne era già accorsa con un panno bagnato e
gli tamponava le dita che grondavano caffè
bollente. «Ci manca solo un’ustione al lungo
elenco di infortuni che ti sei procurato!»
disse sospirando.
Ray continuò a fissarla fino a quando non
ottenne la risposta che aspettava con tanta
apprensione.
«Lui sta meglio, anche se la prognosi non è
ancora sciolta. Ma i medici sperano.»
«Voglio andare a trovarlo.»
«Fino a Denver? Non sei ancora in grado di
prendere un aereo. Puoi chiamare i genitori,
invece.»
«Lo sai che non vogliono parlarmi.»
«Vedrai, prima o poi lo faranno.»
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